A SCUOLA DI PIZZA

La formazione professionale è l’impegno di tutte le forze nel mondo del lavoro, siano esse economiche, politiche, sindacali, ecc.; oggi agli albori del terzo millennio il nostro settore lavorativo si presenta vivace, aggressivo, fantasioso ed anche individualista come riportato di recente in un articolo “di che pizza sei” pubblicato su un’autorevole mensile del settore.
Giovanissimo è il comparto pizza, infatti, pochissime erano le pizzerie nelle città alla fine della seconda guerra mondiale, quasi nulle in provincia o nei piccoli comuni. Parliamo di appena cinquanta anni fa. Solo alla fine del decennio sessanta e primi settanta, lo sviluppo di questa tipologia di mercato ha avuto un boom notevole, confermando nel tempo, un trend positivo che ancora oggi, sia pur diverso, in vari prodotti pizza resta tale.
Ben venga quindi questa competitività tra i pizzaioli che, a mio modesto parere, rende positivo la nascita di molte associazioni, che ha tolto alla prima nata trentatre anni fa il monopolio assoluto e presuntuoso della gestione della cosa.
Ricordo di essermi avvicinato all’Apes, con emozione e con profondo convincimento della bontà nell’essere uniti, per contribuire alla crescita del settore pizzeria. Nel tempo trascorso in seno ad essa, mi sono avvicendato in varie funzioni organizzative tra cui la didattica che tanto interesse ha sempre destato, sia nella persona del pizzaiolo, sia nel mondo produttivo che orbita intorno alla pizza. Mi riferisco alle industrie che producono attrezzature, materie prime, e quant’altro serve agli operatori del settore, le quali stando vicine ai pizzaioli, hanno saputo cogliere tutti gli spunti utili per la loro crescita economica, segnando in alcuni casi un successo davvero notevole. Oggi queste aziende si possono permettere di affrontare il mercato con una certa tranquillità economica cui anche i nostri movimenti no-profit hanno contribuito. Non solo, credo di poter affermare che il sottoscritto e un caro amico ora scomparso, Eugenio Ghezzi, sicuramente hanno segnato le strade di Milano alla ricerca di una possibilità per dar vita ad una vera scuola di pizza; bussando a tutte le porte degli Enti Pubblici riuscimmo (era il 1994) ad ottenere delle aule in Istituti Professionali dove per anni si sono svolti corsi di formazione professionali seri e soprattutto finanziati con F.S.E.
Risorse queste, che i politici su richiesta del mondo del lavoro avevano ottenuto, in passato, per riqualificare tutti i settori produttivi italiani e che, oggi, non sappiamo per quanti anni ancora dureranno, visto che sono entrati nella Comunità Europea nuovi paesi ai quali, verranno concessi aiuti per facilitarne l’inserimento.
La vivacità, la violenta crescita, l’ingenuità dei pizzaioli, la furbizia delle industrie e il successo mirabile del primo movimento associativo, poco democratico e senza larghe vedute, ne ha decretata la sua frantumazione in piccole realtà locali facilmente domabili dal punto di vista economiche, provocando come reazione, lo stop di quell’ambizioso progetto del quale mi sento un pioniere ( una vera scuola di pizza italiana).
Tutti hanno cominciato a fare corsi, più o meno capaci di soddisfare le esigenze del settore, con l’unico punto di vista di finanziare queste associazioni a discapito della qualità stessa della formazione del pizzaiolo.
L’Associazione Pizzaioli Marchigiani di cui faccio parte come dirigente, da più anni è impegnata nel tentativo di ricostruire le condizioni ideali per ricominciare il cammino verso la nascita di un vero Istituto Professionale per Pizzaioli, dove sia possibile certificare la qualità di un operatore e dare alla scuola stessa l’immagine qualitativa che tutto il mondo aspetta. Estremamente ambizioso come progetto, certo, ma i segnali che giungono sono incoraggianti, infatti in questo poco tempo molte sono le richieste che ci giungono anche via internet, dove la prima cosa che ci viene richiesta è l’indicazione: “dove poter frequentare un buon corso pizzaioli”; segno evidente che la qualità delle offerte sul mercato non sono delle migliori.
Nell’era della globalizzazione il nostro settore non è esente da sofisticazioni, contraffazioni e quant’altro si può aggiungere a come realizzare la vera pizza italiana.
Dal Giappone un pizzaiolo italiano ci ha chiesto com’è possibile realizzare la pizza con le bollicine bruciate sul cornicione, perché (secondo lui) per i giapponesi la vera pizza napoletana deve essere realizzata con queste caratteristiche.
Ma dove sta scritto che la pizza napoletana deve presentare queste peculiarità?
Chi ha messo in testa al mercato giapponese che la pizza deve far vedere queste caratteristiche? E stiamo parlando di una pizza regionale, perché il progetto “Verace Pizza Napoletana”, come più volte ribadito rappresenta una delle pizze regionali italiane.

Con tutto il rispetto dei napoletani che sono riusciti a internazionalizzare una loro eccellenza territoriale, ma della “Vera Pizza Italiana” chi si sta occupando?
Girando per il mondo tutti si vantano di offrire la pizza italiana, i colori della nostra bandiera sono i più utilizzati in assoluto, ma in pochissime eccezioni si trovano operatori italiani che diffondono la filosofia alimentare italiana. Anche in Italia la pizza sempre di più è realizzata da personale che non è italiano, utilizzando prodotti che di italiano hanno molto poco. Un esempio: la farina impiegata negli impasti è prodotta con grani di forza reperiti sui mercati internazionali.
Nella nostra cultura agricola non esistono farine molto forti se non quelle realizzate con grani esteri e allora di quale pizza italiana parliamo?
Perché le organizzazioni di pizzaioli non si uniscono a tutela dei prodotti agricoli nazionali?
Perché invece di esaltare solo la spettacolarizzazione del mestiere di pizzaiolo non curiamo l’aspetto nutrizionale della pizza?
Perché non aiutiamo i nostri produttori di alimenti a diffondere le eccellenze agroalimentari del nostro paese?
Vorrei rispondere a questi perché cercando di far capire al settore che le micro organizzazioni ( sia associazioni, federazioni, accademie, unione di pizzaioli, ecc.) presenti sul territorio italiano si occupano solo di campionati del mondo, olimpiadi, concorsi di vario tipo e così via, ma non perdono il loro tempo nella promozione dell’agroalimentare italiano che creerebbe una sinergia nazionale e produrrebbe vantaggi economici a tutta la filiera italiana e non ultimo si aumenterebbe la cultura alimentare italiana.
Bello e sempre attraente è lo spettacolo che si può ammirare con i pizzaioli acrobatici che sono in grado di allietare eventi, serate, feste di ogni tipo; ma i campionati del mondo (o di altro genere) che non hanno delegazioni estere di rappresentanza, provenienti da selezioni regionali, nazionali e internazionali quale valenza può avere nella qualità della gratificazione onorifica.

Non sarebbe forse meglio aprire anche un dibattito nazionale sulla pizza italiana realizzata solo ed esclusivamente con prodotti italiani certificati? Sicuramente si creerebbe un nuovo fronte promozionale che ci renderebbe unici e capaci di creare quella sinergia necessaria allo sviluppo dell’italianità all’estero. Questo modo di proporre i prodotti nazionali ci permetterebbe di sviluppare la filosofia culinaria italiana e di aiutare tutta la filiera produttiva nazionale con un beneficio economico per l’intero comparto alimentare italiano.
Una formazione univoca riguardo la vera pizza italiana darebbe prestigio all’Italia, al settore, a tutti i pizzaioli italiani.
Renato Andrenelli