Le farine molto proteiche non sono sinonimo di qualità.

Farine molto estensibili = alta percentuale di gliadina

Oggi sempre più il pizzaiolo si lascia condizionare dal consumo di farina molto proteica per la produzione di pizza. E’ moda utilizzare alta idratazione negli impasti, utilizzare piccolissime quantità di lievito, eseguire la maturazione degli impasti con l’azione del freddo, ecc. ecc.

Tutte tecniche che sono valutate positivamente dal consumatore perché i media ne amplificano le caratteristiche attraverso operatori che hanno fatto della loro visibilità un momento di alta professionalità.

Viviamo sempre più un presente in cui l’immagine conta più dell’essere. I Follower contano più delle reali capacità professionali, l’aspetto esteriore degli alimenti conta più della qualità nutrizionale che l’alimento stesso è in grado di apportare a livello salutistico. Si predilige sempre più la facilità di produzione alla salubrità dell’alimento (in questo caso la pizza) che introduciamo nel nostro organismo.

Infatti dopo aver mangiato pizza, sempre più si può assistere a sintomi di difficoltà digestiva, sonnolenza, scarsa concentrazione lavorativa, gonfiore addominale, ecc. Tutti sintomi che si associano a scarsa lievitazione della pizza, che nulla hanno a che vedere con una lunga maturazione o alta idratazione degli impasti, sinonimo (per i più) di qualità del prodotto pizza.

Se aggiungiamo che la globalizzazione ha permesso di avere sulla nostra tavola, quotidianamente, alimenti da consumare che non sono presenti nel territorio dove si risiede, ma apportano nutrienti che possono non essere necessari all’alimentazione degli abitanti stanziali, è facile intuire che a livello nutrizionale l’utilizzo quotidiano di tali materie prime possono portare degli scompensi al nostro organismo come ad esempio allergie, intolleranze ecc. ecc.

Tornare ad un utilizzo territoriale delle materie prime autoctone nell’alimentazione significa, secondo il mio modesto parere, diminuire drasticamente l’insorgere di queste tipologie fastidiose  di disturbi clinici, con l’effetto che si riducerebbe anche l’impegno economico dello Stato nella sanità pubblica. Ma soprattutto si potrebbe aiutare notevolmente le aziende agroalimentari stimolandole a produrre maggiormente col risultato di avere a disposizione alimenti più salutistici per la popolazione stanziale.

Anche la Scienza, attraverso le Università, studiano le malattie derivanti dal consumo di alimenti che producono effetti negativi sull’organismo umano, sono concordi nell’evidenziare questo aspetto sottolineato.

A tal proposito, allego una tesi di Dottorato di Ricerca pubblicato  dall’Università degli Studi di Milano riguardo l’effetto della gliadina in pazienti  Celiachi.  Renato Andrenelli

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